Tela un po’ annerita, con piccole scrostature e qualche ritocco. Restaurata a cura della Sovrintendenza BB.CC.AA. di Messina nell’anno 2002.

La tela, chiusa entro buona cornice intagliata a festone continuo e indorata, raffigura in alto, fra gruppi di angioletti e sotto la Colomba, l’Eterno, che, sostenendola con ambe le mani, poggia la croce sulle spalle del Cristo, nudo dalla cintola in su in un gran cratere, entro cui si raccoglie, sgorgante dalle sue ferite, il divino sangue, che indi, zampillando per gocciolatoi, si versa entro calici tenuti da angioletti.

Ai lati della Trinità e degli angeli, sono raffigurati a destra S. Giuseppe ed alcuni Santi, fra cui Nicolò e Sebastiano, ed a sinistra, con quattro Sante, di cui due martiri, la Vergine che, premendosi un seno, ne fa sprizzare del latte.

Nella parte centrale, tre angeli, circondati da altri angioletti, sollevano al cielo, in figura di donna orante seminuda, un’anima liberata dalle fiamme del purgatorio.

Nella fascia inferiore, le anime sono, tra le fiamme, in unico piano: le figure appaiono un po’ annerite, salvo alcune sulla destra, tra le quali attira l’attenzione una, che, tutta di spalle, sembra osservare due angioletti che, dalla stessa parte, guardano all’anima liberata, mentre un terzo vola a capofitto su di essi. In primo piano, sempre a destra, una sola anima appare vestita, in abito talare; nello stesso angolo, in un cartiglio che pare riferibile ad una figura che guarda frontalmente, si legge: – D.r Joseph Côstantius Tortoreti et Mirti Secretus propriis côstrui curavit expensis. a. d. 1694-.

Se dovessimo stare alla data scritta nel cartiglio, poiché la pala, conforme alle due omonime di Mistretta e Mirto firmato da Giuseppe Tomasi, presenta tutte le caratteristiche delle opere sue ed è indiscutibilmente opera sua, dovremmo concludere che il pittore, inattivo dal 1672 al 1694, abbia ripreso il pennello per eseguire la replica di due opere compiute quarant’anni prima: dimostreremo invece, con l’ausilio di documenti, che la tela non può ritenersi eseguita nello stesso periodo in cui furono eseguite le altre due e che la data apposta in essa va riferita all’anno in cui si ordinò la fattura della cornice, come, del resto, si potrebbe fin d’ora arguire daL verbo côstrui.

Ecco, in breve, i fatti. Nell’alluvione del 1682, le chiese di S. Nicolò e di S. Maria di Tortorici perdettero tutte o quasi tutte le loro campane: di queste solo alcune, ritrovate poi tra le sabbie del fiume Grande, furono recuperate dalle chiese proprietarie. Nel 1777, una campana di circa sei quintali, dissepolta dai parrocchiani di S. Maria, portata nottetempo in detta chiesa e ridotta in settantatré pezzi per alterare le figure, fu oggetto di una nuova lite tra Mariani e Nicolini, prima presso il Giudice Criminale locale, quindi al tribunale della Magnia Regia Curia – Aula Criminalis, in Palermo, dove la campana fu trasferita e ricomposta nei suoi pezzi, ed infine nello stesso Tribunale- Aula Civilis.

Chiamati a stabilirne il diritto di proprietà e perciò a riconoscere – attraverso perizie, testimonianze, esame delle due figure a stento leggibili impresse sulla campana (un santo vescovo e la Vergine) e valutazione delle consuetudini dei fonditori – imagines, et signa quibus ignosci, et argui potest dominium ipsius campanae, i giudici vennero a precisare: che le campane situate ne’ Campanili di q. Città son dedicate a i Santi delle rispettive Chiese, e niuna a Santi di Chiesa aliena; che ciascuna, oltre l’immagine del titolare della chiesa di appartenenza, portava l’immagine del santo cui era dedicata, che doveva riprodurre le caratteristiche della statua o quadro che lo raffigurava all’altare a lui intitolato in chiesa; ed inoltre, importanti ai fini della lite,che la contesa campana era stata fusa da M° Domenico Crimi, da cui si decifrò la soscrizione su di essa, e che la seconda figura im pressa rappresentava un’Immagine di Maria SS.ma con una mano stesa verso le suddette anime purganti, e coll’altra tiene la mammella in atto di spremere il latte sopra il Fuoco del su detto Purgatorio, e difatti si scolgono stille di latte…

Obiettarono i procuratori di S. Maria che il quadro omonimo in S. Nicolò era del 1694, fatto costruire dal Dr. Costanzo Barone di S. Leo…e si fece dipingere il di lui ritratto in piedi del medesimo nelle fiamme con una lettera alle mani, come attualmente esiste; ed i Nicolini dimostrarono con documenti che all’epoca dell’alluvione l’altare ed il quadro esistevano da tempo, tanto vero che la campana era stata fusa tra il 1652 ed il 1668, arco di tempo in cui aveva operato il fonditore Crimi, il quale, come da consuetudine, aveva copiato l’immagine del quadro già esistente in chiesa .

Il Tribunale, nel 1781, emise la seguente sentenza: -Fuit decisum pro Ecclesia Sti Nicolai, ne tamen existente in contrario voto -: e la campana fu restituita, nei suoi settantatré pezzi, ai procuratori di S. Nicolò, che la fecero rifondere quell’anno stesso e, di nuovo, nel 1791, con un’epigrafe che rievoca i fatti.

Dobbiamo pertanto dedurre, col Tribunale, che la tela delle Anime del Purgatorio della chiesa di S. Nicolò di Tortorici è anteriore al 1668, estremo limite dell’attività del fonditore della campana, e che l’iscrizione sul quadro è un’aggiunta posteriore chiaramente riferibile alla sua cornice.

Quanto al committente del dipinto, ammettendo intanto il 1654 come data accettabile per l’esecuzione di esso, è anche probabile che sia stato della famiglia del barone Costanzo, morto nel 1706 aetatis annorum 60 circiter, nel qual caso atti e registri suggeriscono il nome del Sac. D. Giuseppe, che già conosciamo procuratore della chiesa di S. Nicolò, nel 1668, insieme col Cl. d. Francesco Tomasi: ma nulla c’è che lo dimostri esplicitamente.

Circa la data di probabile esecuzione del dipinto, non si è scelta a caso quella appena citata del 1654: a nostro avviso, essa è la più accettabile per due ordini di motivi: la tela, infatti, che sfrutta qualche particolare dell’omonima, molto più antica, piuttosto tinta che dipinta, della chiesa di S. Francesco di Tortorici, è conforme a quella, cromaticamente meno vivace, firmata dal Tomasi in Mirto nel 1654 ed all’altra, più sobria, da lui firmata in Mistretta nel 1651: plausibile perciò una datazione contemporanea o di poco anteriore a quella del dipinto di Mirto; ed inoltre, in un periodo in cui le chiese rivali di Tortorici tendevano a superarsi con privilegi e per magnificenza, è assai probabile che il dipinto sia stato commissionato dalla Confraternità del Purgatorio della Ch. di S. Nicolò, o da chi per essa, in concomitanza della concessione (1654) delle Indulgenze dell’Altare Privilegiato della Chiesa del Sto Nicolò della Confraternità dell’Anime del Purgatorio pell’Anime de’ Confrati, e Consoro defunti di essa.

Eseguito dopo quello di Mistretta e probabilmente poco prima di quello di Mirto, il dipinto di Tortorici, conservato sempre nella Ch. di S. Nicolò, è senza dubbio il più completo dei tre: ben sistemati i volumi e opportunamente riempiti gli spazi, in un’apprezzabile prospettiva generale, esso esercita, ripetiamo con l’Accascina, un particolare interesse per le notevoli qualità cromatiche; non provoca, però, l’impressione che suscita la tela di Mistretta: non solo, riteniamo, per lo svigorimento dei colori nella fascia inferiore, forse accentuato dal bagno di fango subito nella più volte menzionata alluvione, ma anche per una più corretta interpretazione data al Purgatorio dal Tomasi: non regno di pena, ma di espiazione e speranza, come parrebbe anche nel dipinto di Mirto. Interessante, in tutti e tre, nella parte superiore, l’iconografia, insolita, anzi completamente nuova.